Bruno Pizzul ci ha lasciati a 86 anni, la sua voce ha raccontato il calcio italiano per generazioni, con uno stile inconfondibile
La storia di Bruno Pizzul non è solo quella di uno die più grandi telecronisti della storia del calcio, ma di un uomo che ha dato voce ai momenti più belli ed esaltanti del calcio italiano.
Dal Mondiale del 1990 con le sue Notti Magiche al celebre urlo ‘Robertobaggioooo’ durante i rigori di Pasadena nel 1994, le sue telecronache sono state il sottofondo sonoro di generazioni di tifosi.
Mai sopra le righe, mai eccessivo, mai invadente. Lo stile di Bruno Pizzul era quello di un amico che ti racconta la partita con competenza, pacatezza, ma senza mai togliere spazio all’evento.
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In un’epoca in cui il calcio si ascoltava tanto quanto si guardava, la sua voce era un rito, una sicurezza. È stato in effetti l’ultimo periodo in cui il calcio era il vero evento: e chi lo narrava era solo un compendio e non un protagonista.
Nato l’8 marzo 1938 a Udine, Pizzul fu prima di tutto un discreto calciatore. Cresciuto nella Pro Gorizia, giocò anche con Catania e Udinese, prima che un infortunio lo costringesse a lasciare il calcio giocato. Ma il destino aveva in serbo per lui un’altra carriera, forse ancora più grande: diventare il narratore delle emozioni calcistiche di un intero Paese.
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Entrò in RAI negli anni ’60 attraverso un concorso e il suo talento lo portò presto a diventare il telecronista di punta della rete pubblica. Dal 1986 al 2002 fu la voce ufficiale della Nazionale Italiana, commentando cinque Mondiali e quattro Europei, oltre a innumerevoli match di Serie A e Coppa dei Campioni. Fu lui a raccontare l’epopea del Milan in Coppa delle Coppe del 1973, la vittoria della Lazio e del Parma in Coppa UEFA. Ma il suo timbro è rimasto scolpito soprattutto per via degli eventi in Azzurro, quando l’Italia si fermava davanti alla tv per guardare la Nazionale.
Pizzul non aveva bisogno di effetti speciali. Non era il cronista urlato dei tempi moderni, ma un uomo dallo stile sobrio, elegante, misurato. Parlava con la competenza di chi il calcio lo aveva vissuto, con la leggerezza di chi sapeva che lo sport è anche racconto, emozione, convivialità.
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“Sono bravi, certo, ma adesso i telecronisti parlano un po’ troppo… Ai miei tempi ci dicevano di parlare poco, figuriamoci oggi.” Con questa battuta, che nascondeva forse anche un pizzico di malinconia, Pizzul raccontava come il suo mestiere fosse cambiato. Ma per chi lo ha ascoltato per decenni, la sua voce resta il suono di un calcio che oggi non esiste più.
L’ultima partita ufficialmente commentata da Bruno Pizzul fu Italia-Slovenia, un’amichevole giocata nel 2002 a Trieste. Fu un addio discreto, senza clamori, proprio come il suo stile.
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Ma il destino gli regalò un’ultima occasione per emozionare: Euro 2021. A Cormons, il suo paese in provincia di Gorizia, commentò da un maxischermo la finale Italia-Inghilterra, gridando con entusiasmo: “Siamo campioni d’Europa!”.
Era fuori dagli studi Rai, lontano dalle telecamere, ma ancora una volta la sua voce ha accompagnato l’Italia verso la vittoria.
Pizzul non ha mai preso la patente: era la moglie Maria a scarrozzarlo ovunque, dalla Rai agli eventi sportivi. Un dettaglio che racconta molto del suo carattere: un uomo semplice, lontano dai riflettori, ma sempre presente con la sua ironia e la sua pacatezza.
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Anche dopo il ritiro dalle telecronache, Pizzul è rimasto una presenza costante in tv, partecipando a molte trasmissioni di intrattenimento e sportive. Con la sua voce calda e il suo humor raffinato, sapeva sempre regalare un sorriso, dimostrando un’autoironia rara.
Ma c’è un momento, nella sua lunga carriera, in cui la sua voce si è trovata a raccontare non il gioco, non il trionfo o la delusione sportiva, ma una tragedia. Heysel, 29 maggio 1985: doveva essere una finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, si trasformò in una delle pagine più nere della storia del calcio.
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“Mi sentii schiacciato dall’assurdità di essere arrivato in una bella e civile città europea per raccontare le emozioni di una partita di pallone e invece fui costretto a parlare di 39 morti e centinaia di feriti” raccontò anni dopo. Era un giornalista, ma prima di tutto un uomo. Davanti a quell’orrore, in un’epoca in cui la televisione non aveva filtri e la cronaca si faceva in diretta, Pizzul rimase lucido, dignitoso, rispettoso. Senza retorica, senza frasi a effetto, solo con il peso delle parole giuste.
Quando due ragazzi riuscirono a raggiungere la sua postazione e gli chiesero di dire alle loro famiglie che erano vivi, la sua risposta fu quella di un uomo che comprende la delicatezza del momento: “Non posso accontentarvi, perché ci sono tante mamme e parenti che non saprebbero se i loro cari stanno bene o no.” Il dilemma etico di chi deve informare, senza alimentare il panico. Un equilibrio difficile, che lui seppe mantenere con lo stile sobrio che ha sempre caratterizzato la sua carriera.
Oltre al calcio, Pizzul è stato un punto di riferimento per il giornalismo sportivo italiano. Con il suo modo di raccontare lo sport, ha lasciato un’impronta che va oltre la semplice telecronaca. Ha incarnato un calcio romantico, fatto di passione e competenza, di rispetto per il gioco e per gli spettatori.
Bruno Pizzul non è stato solo un telecronista: è stato un pezzo di storia italiana, un narratore di sogni che ha dato voce ai trionfi e alle delusioni di un popolo. E se chiudiamo gli occhi, possiamo quasi sentirlo ancora: “Signori all’ascolto, buonasera…”, pronto a portarci di nuovo in campo, come faceva una volta.
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